mercoledì 8 luglio 2015

Cucina cosmica


Una lettura da consigliare? Io ce l’ho. È un saggio divulgativo alla maniera anglosassone, dunque comprensibile a tutti o quasi per la chiarezza del linguaggio, che dà l’opportunità di approfondire una questione colpevolmente trascurata. Si tratta di “L’evoluzione cosmica. La storia della materia dalle origini dell’universo a oggi”, di Hubert Reeves, astrofisico canadese che, superata l’ottantina, si ritrova con una bella faccia antica e barbuta esattamente da astrofisico, segno evidente che appartiene alla fortunata cerchia di chi ha saputo scegliere il lavoro più giusto per sé. E di questo ci felicitiamo con lui.    

Il saggio, come si evince dal titolo, risponde in modo efficace a una domanda che, se non è tra le prime che ci vengono in mente la mattina appena svegli, di sicuro ci saremo posti qualche volta, ovvero: 
“Da dove viene tutta la materia?”.
Per rispondere al basilare quesito Hubert Reeves descrive brillantemente e rigorosamente come si formano gli atomi, i costituenti di base o mattoni della materia, dai più leggeri e abbondanti nel cosmo ai più pesanti e rari. E soprattutto descrive dove: dentro le stelle, meglio: dentro vari tipi di stella, perché stelle di diverso tipo ed età producono atomi diversi. E leggendo l’appassionante descrizione di come tutto questo avvenga ci si rende conto che, in fondo, le stelle non sono altro che fornaci cosmiche dove, regolando opportunamente temperatura e pressione, si sforna materia a diversi gradi di cottura. 
L’immagine può sembrare eccessivamente colorita, eppure no, pagina dopo pagina ci si rende conto che è proprio così: in tutto l’universo, dentro la pancia calda delle stelle, si produce materia atomica che in seguito a immani esplosioni – in sostanza quando una stella muore – è catapultata nello spazio interstellare come polvere cosmica dalla quale infine potranno scaturire altre stelle e pianeti… Il ciclo vitale delle stelle è infatti strettamente connesso alla formazione della materia, e il combustibile impiegato per la cottura è l’elemento più abbondante in assoluto, il più leggero e semplice di tutti, un protone e un elettrone: l’idrogeno, che da solo costituisce il 90% di tutta la materia esistente, almeno di quella visibile, perché c’è anche della materia, detta oscura, che per quanto preponderante è per noi assolutamente impenetrabile… e qui mi fermo, questo e altro lo racconta molto meglio l’astrofisico canadese…

Una sola raccomandazione. Potrebbe affacciarsi qua e là durante la lettura, mentre via via si comincia a comprendere come funziona il PCPT (Programma Cosmico di Produzione del Tutto), potrebbe affacciarsi qualche pernicioso: “Perché?”; potremmo chiederci: “Perché è così e non cosà?”, “Perché c’è quel che c’è?” e così via… Ecco, meglio evitare. Hubert Reeves, da scienziato, ovviamente non risponde a simili domande, c’è ancora tanto da capire sul come prima di passare al perché; inoltre sui perché dell’universo è a disposizione una letteratura filosofico-religioso-sapienziale talmente sterminata da rendere superflua qualsiasi aggiunta. Per quanto mi riguarda evito volentieri il salto dal fisico al metafisico, si rischiano brutte fratture logiche, però una considerazione un po’ trascendente, stimolata proprio dalla lettura di questo libro, è possibile: sull’immortalità dell’anima si potrà anche discutere, ma sull’immortalità della materia no. Siamo fatti di materia stellare cucinata stramiliardi di anni fa dentro stelle stralontane che continuerà a esistere per altri stramiliardi di anni dopo la nostra scomparsa: niente muore nel magico mondo della materia, varia solo lo stato di aggregazione: prima di noi i nostri atomi erano variamente dispersi o aggregati nello spazio, poi si sono combinati, bontà loro, per fare noi, e dopo di noi continueranno a disperdersi e ricombinarsi nello spazio per formare qualsiasi cosa gli capiterà di formare…

Vorrei sottolineare in conclusione anche il potere terapeutico, da non trascurare, di questo libro fondamentale che personalmente tendo a rileggere nei momenti difficili della vita (chi non ne ha?): quei momenti odiosi in cui c’è sempre qualcuno che ci invita a “guardarci dentro” perché “le risposte sono dentro di noi”, per “conoscerci meglio”, per “non sfuggire alle nostre responsabilità” e via con le più laceranti introspezioni... 
Io invece a chi attraversa un momento di crisi consiglio proprio di leggere “L’evoluzione cosmica” di Hubert Reeves (è nella collana Supersaggi della BUR, spero si trovi ancora facilmente), consiglio di volgere lo sguardo oltre l’angusto giardino delle nostre personali miserie, di alzarlo verso il cielo e farlo spaziare, farlo passeggiare tra le galassie, farlo curiosare dentro le stelle dove s’è fabbricato e si continua a fabbricare il Tutto… e allora vedrete come il nostro misero “dentro” si ridimensionerà nel confronto con l’illimitato “fuori”. Potrà essere che un dolce smarrimento accompagni l’inevitabile percezione di quanto siamo effimeri, e quanto marginali e superflui e perfettamente trascurabili, smarrimento che sarà in parte attenuato, per fortuna, dall’intimo orgoglio di saperci almeno immortali nei nostri costituenti di base, nei nostri atomi, gli stessi delle stelle, gli stessi di tutto... Che pace, che gioia…
Buona lettura.

Nel caso vi fosse sfuggito…

Sly and the Family Stone, Everybody is a Star, 1969


mercoledì 1 luglio 2015

Quando gli italiani risorgevano


A Milano, anche prima dell’Expo, si son fatte cose belle. Tra tutte ho particolarmente gradito le “Gallerie d’Italia” www.gallerieditalia.com, ingresso in Piazza della Scala 6, spazio espositivo che vanta due contenitori d'eccezione: per la collezione di opere dell’800 Palazzo Anguissola Antona Traversi, edificato tra il 1775 e il 1778, e per quelle del 900 delle collezioni Intesa Sanpaolo la sede storica della Banca Commerciale dei primi del secolo scorso. Al piacere di poter visitare due magnifici palazzi si aggiunge l’intenso piacere che procura la qualità delle opere esposte. Tra queste, una in particolare è stata per me oggetto di commossa ammirazione: L'artiglieria della III Divisione all'attacco durante la battaglia di San Martino, del 1887. Ho cercato di capire perché...

L’autore del dipinto, Sebastiano De Albertis (1828-1897, Milano), si forma all’Accademia di Belle Arti di Brera e per gran parte della sua carriera – non gli mancheranno i riconoscimenti, si dedica a opere di genere militare-patriottico specializzandosi in quadri di battaglie. Prima di mettere piede alle Gallerie di questo pittore ignoravo l’esistenza, anche come toponimo, e non ho mai provato il minimo interesse per gli orridi quadroni celebrativi che infestano un po' tutti i musei. Per questo la forte impressione che ho subito davanti a questa rappresentazione d'una sanguinosa battaglia risorgimentale mi ha preso in contropiede. Che si tratti di un dipinto di ottima fattura si vede subito, ma non superiore in questo ad altre opere, di Gerolamo Induno per esempio, esposte nella medesima sala. 

Provo a descrivere il quadro.
In primo piano, tra l’erba, il pittore ha ritratto un soldato morto visto dalla parte dei piedi, in secondo piano tutto il resto, cioè lo scontro fra l'esercito austriaco e quello franco-sardo. Al campo di battaglia si dirigono i soldati a cavallo che occupano la parte centrale del quadro, sopra un carro di legno è issato un cannone; nella piana si intravedono altri sodati a cavallo, e disseminato in tanti sbuffi, dappertutto, si solleva il fumo delle armi da fuoco; lontano, su basse colline, il profilo di una massiccia costruzione da un lato, i bagliori di un incendio dall’altro; una striscia di cielo plumbeo, acceso a fatica dalla luce opaca di basse schiarite, attraversa in alto tutta la scena. Il dipinto appare nettamente diviso in due parti, dove la metà inferiore è occupata quasi per intero da una distesa d’erbacce incolte, rese con estrema cura, e dove tra le erbacce giace il protagonista: il soldato morto.

Come evidente, qui tutto è studiato, pensato, voluto: non c’è niente di veramente realistico o ingenuo in una rappresentazione del genere. Eppure tutto sembra profondamente “vero”. Se il soldato morto è il protagonista visibile del quadro, la protagonista invisibile ma che ruba la scena è la glaciale indifferenza della vita rispetto alla morte di un poveraccio, tragedia irreparabile solo dal punto di vista del defunto – oppure di uno qualsiasi di noi, altrimenti perfettamente trascurabile. La vita imperturbata continua e la battaglia pure. Questo mostra magistralmente con il suo simbolismo camuffato da cronaca Sebastiano De Albertis. E noi che guardiamo non possiamo che ammettere che sì, è proprio così: una singola morte non turberà mai né il flusso della vita né l’esito di una battaglia. Rimosso il corpo del caduto, l’erba ne riassorbirà presto l’impronta, tutto il campo della sanguinosa battaglia tornerà a essere verde pascolo… Amen.
Noi tendiamo a rimuovere questa semplice verità come pure tante altre: lo facciamo ricorrendo alla banale operazione giornaliera denominata “vivere” che, come la colazione, sbrighiamo per pura inerzia esistenziale. Ma l’arte, che non spiega nulla ma mostra, quando fa il suo dovere e sfrutta abilmente i suoi mezzi ci mette di fronte a lampanti “evidenze”, va dritta a inceppare l’oliato meccanismo della visione convenzionale per sbalzarci in uno spazio inconsueto, un ambito protetto dove è possibile contemplare il bello e sbirciare insostenibili verità…

Questo quadro del De Albertis, oltre che toccarmi nel profondo, è stato l’utile pretesto per un rapido ripasso di una stagione eroica della nostra storia, un’epoca ribollente in cui gli italiani addirittura risorgevano… Ricordato per lo più con il nome di “Battaglia di Solferino e San Martino”, lo scontro del 24 giugno 1859 fu particolarmente cruento, e segnò una tappa importante, sebbene non decisiva, per le sorti della seconda guerra di indipendenza. Fu inoltre l’immensa carneficina che ispirò a Henry Dunant la creazione della Croce Rossa Internazionale. Fatte le debite proporzioni, certi giorni guardandomi intorno mi dico che ce ne vorrebbe un altro di Risorgimento, e alla svelta anche…
Non meno bello e struggente un altro quadro del Nostro, che di ridotte proporzioni e collocato a poca distanza dalla Battaglia ne è un poco oscurato. Raffigura due cavalli allo sbando dopo che han perso il soldato che li cavalcava... 


Sebastiano De Albertis, L'artiglieria della III Divisione all'attacco durante la battaglia di San Martino, olio su tela,  166x353 cm, 1887.

Sebastiano De Albertis, Il richiamo dei cavalli sbandati o Suoneria della biada, olio su tela, 83x130 cm, 1893.